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La strage di via D'Amelio (19 luglio 1992) in cui perdono la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. È uno dei momenti più evidenti dell'uso "militare" della mafia da parte dello Stato e dei suoi pezzi cosiddetti "deviati" |
La Trattativa sulla pelle: crescita di un futuro boss
Figlio d'arte, Matteo Messina Denaro inizia la sua carriera criminale dalla base della piramide commettendo omicidi per i corleonesi, seppur con alterne fotune: il commissario Rino Germanà – che riesce a prendergli le impronte digitali – si salva durante uno scontro a fuoco, nel settembre 1992, grazie al kalashnikov di Leoluca Bagarella che si inceppa. Da quel momento Germanà viene dimenticato, nonostante sia stato uno degli investigatori più attenti al rapporto mafia-economia legale. O forse proprio per questo, perché si sa che in Italia, chi fa il suo dovere ne paga spesso le conseguenze.
È quello che nel 1992 capita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che da procuratore di Marsala, nel 1989, firma la prima denuncia per associazione mafiosa contro “'U Siccu”. È il primo germe che porterà alla strage di via d'Amelio (19 luglio 1992), in cui è ormai accertata la collaborazione tra mafia e servizi segreti, un patto inscritto nella vita di Matteo Messina Denaro fin dal suo battesimo cristiano: a fargli da padrino è infatti Antonino Marotta, ex membro della banda di Salvatore Giuliano che nel Natale 1949 ospita un incontro tra il bandito e le autorità di pubblica sicurezza in Sicilia e nel 2010 – quando viene arrestato nell'ambito dell'operazione “Golem 2”, ad 83 anni – considerato “fiancheggiatore” del boss trapanese.